Generazione Tattoo. Duri fuori, morbidi dentro

    Siete tutti tatuati“, dicono con orrore mamme e zie.
    E chi non ha sentito almeno una volta la domanda fatidica alzi la mano: “Ma perché ti macchi il corpo?”
    Siamo la generazione tattoo, quella che viene dalle università e non dalla galera o dalla guerra, quelli tatuati per moda, per scelta, per stile, a volte anche per incoscienza. Siamo quelli un po’ criticati perché “una volta i tatuaggi ce li avevano i delinquenti ” e noi, invece, siamo laureati, imprenditori, avvocati e medici; di destra e di sinistra; artisti o uomini di scienza; cattolici e atei. Non sembriamo tutti dei veri duri, anzi amiamo i contrasti.

    Quanto sono fighi gli uomini pieni di tatuaggi che giocano con i figli o i cuccioli? Un galeotto con la scritta “Mamma perdonami“, coccolare un cane non lo abbiamo mai visto. Eppure oggi, avere un tatuaggio non vuol dire essere poco seri, irresponsabili o dei perdigiorno ma, per alcuni, seguire una moda; per altri, un mezzo per esprimersi o ancora per fermare ricordi ed emozioni. Il corpo è ciò che abbiamo di più intimo e personale, la pelle ne è l’involucro esterno, quindi tatuarsi, da un certo punto di vista, è portare fuori ciò che dentro c’è già. E’ vero poi che dal troppo moralismo si passa all’eccesso opposto di chi si tatua dalla testa ai piedi, forse non proprio abbellendo il corpo, ma chi siamo noi per giudicare?

    generazione tattoo

    I tatuaggi hanno origini tribali antichissime, ma anche in Europa ne abbiamo traccia già in epoca romana, quando i soldati, durante gli scontri con i britannici, videro che questi portavano sulla pelle dei segni distintivi del loro onore e forza. Nonostante nell’antica Roma il corpo fosse considerato sacro, qualche giovane alternativo diede il la a questa moda, causando la reazione a catena che oggi ha portato gladiatori e Colossei tatuati sulle braccia dei fieri romani – si scherza, ci piacciono anche quelli.

    Solo nel 1700, i marinai europei verranno a contatto con le popolazioni indigene delle isole del Centro e Sud del Pacifico, dove ogni tattoo aveva una specifica valenza sociale e culturale. Ad esempio, quando le ragazze tahitiane raggiungevano la maturità sessuale, le loro natiche venivano dipinte di nero; nel Borneo, gli indigeni si tatuavano un occhio sul palmo delle mani che li avrebbe aiutati nel passaggio all’aldilà; ancora, a Samoa, era diffuso un tatuaggio su tutto il corpo, 5 giorni di realizzazione tra dolori e imprecazioni, se li superavi venivi onorato con una grande festa. Mica come oggi, che appena un bambino mette un piede davanti all’altro ecco che arrivano clown, compagnetti e scivoli gonfiabili.

    Sia che abbia una valenza puramente estetica, o che sia l’espressione di un momento importante della propria vita, il tatuaggio si sta lentamente liberando della coltre di pregiudizi e ottusità che lo circondava. Non è più prerogativa del cecchino o dello strangolatore, ma di tutta un’epoca: la generazione tattoo oggi va dai 15 anni ai 30/35, quindi accomuna un range molto ampio di età, abitudini ed educazioni diverse. Per non parlare dei cartoni animati, tutta un’altra storia, eppure in questo siamo simili.

    Noi duri fuori e morbidi dentro, siamo i tatuati “Cuor di Ciobar .

     

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