Apertura mentale, flessibilità, carattere, avanguardia ma anche sensibilità verso il passato questo e molto altro rappresenta il mondo della moda. Un sistema con grandi limiti, è vero, che spesso non ha accettato ciò che non considerava bello, anzi perfetto, ma sempre più di frequente fa parlare bene di se. Abbiamo sentito, e scritto, di modelle formose (come nel nuovo calendario Pirelli), ambiente gay-friendly (persino lenzuola dedicate!), protezione dei diritti degli animali (la nuova collaborazione di Black Score con PETA), campagne benefiche di ogni tipo, da Rosato alle moltissime iniziative di Cruciani; per finire con il riciclo di abiti con gli Swap Party e la moda per disabili. E potremmo, vi assicuro, continuare per mesi a sostenere orgogliosamente i passi avanti del fashion system, nonostante ci siano ancora pagine nere, come lo sfruttamento della forza lavoro e i maltrattamenti sugli animali; ma interi settori dell’industria o della società privi di macchie sul curriculum sono reali come gli unicorni. Senza dubbio, però, si può parlare di un ambiente aperto e tollerante che ha imparato in fretta ad accettare la diversità, la stranezza o l’eccentricità tipica delle personalità artistiche e ne ha fatto il suo bigliettino da visita.
Charlie Hebdo sventolando la bandiera della libertà di espressione, ha più volte offeso, con vignette blasfeme, ogni tipo di religione esistente sulla faccia della terra, compresi i veneratori di panna spray o di candele profumate, insomma non gli va bene nessuno. Sempre in equilibrio precario sui fili di una satira spietata contro tutto e tutti, a volte divertente, altre meno, ma legittima, in un mondo occidentale in cui (per fortuna!!) è concesso dire ciò che si vuole. Poi, pur se certe espressioni o opinioni possono darci fastidio, basta pensare a quante cose moleste e seccanti sopportiamo ogni giorno; se ci dobbiamo sorbire le idiozie dei nostri amici su Facebook, possiamo stringere i denti anche quando leggiamo cose con cui non concordiamo. La satira è legale, l’omicidio no.
Dall’altra parte, com’era ipotizzabile, si sono manifestate insofferenza e rigetto verso la religione musulmana in generale, gli extracomunitari, chi porta il velo e chi ha la pelle che dà sul marrone – per adesso evitate lampade e vacanze ai Caraibi – ed è significativo che alcuni musulmani abbiano lanciato la campagna hashtag #notinmyname (“non a nome mio”) per prendere nette distanze dagli estremisti, chiarendo che la loro religione è tutta un’altra storia. Noi ci crediamo, ma l’equazione musulmano=terrorista, perdonate l’inflessione, è da mo’ che è partita, tanto che sui social gli stati o commenti che recitano: “Aveva ragione la Fallaci, i musulmani ci odiano”, si sprecano, si danno via come i pandori dopo il 6 gennaio.
Sarebbe bello se la società, anziché criticarlo sempre, prendesse il buon esempio che il mondo della moda può dare in questo caso, dove non esistono confini né differenze culturali: le mogli dei petrolieri arabi vestono Valentino e noi made in China, si importa il tessuto e si esporta l’abito pronto, ci si scambiano suggestioni e ispirazioni, etero e gay vivono felici in simbiosi, ci si diverte mentre si lavora, si sparla un po’ della classe che gli altri non hanno ma non si hanno pregiudizi etnico-culturali.
In compenso, bisogna essere onesti, nemmeno la Polizia italiana ha alcun pregiudizio in tema di terrorismo tanto che ha ritenuto probabile che fossi una jihadista perché stavo fotografando una sinagoga per motivi di studio.
Io, con lo zainetto e il tablet rosa mentre facevo bolle con la Big Bubble. Io che, non accorgendomi di essere circondata da agenti sono entrata nel perimetro della sinagoga e ho cominciato a scattare canticchiando l’ultimo pezzo di Marco Mengoni.
Io sarei proprio una pessima terrorista, fortuna che ho scelto la moda.